Diversità, autenticità e attacchi di panico

Consulenza su diversità, autenticità e attacchi di panico a Ciampino


Tutti gli articoli presenti in questa sezione sono stati scritti dal dott. Stati Felice e in alcun modo reperiti o copiati, anche in parte, da altre fonti. Gli stessi, inoltre, sono stati pubblicati sulla rivista CMAGAZINE.

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Il "diverso" nostro vicino di casa


La nostra mente è strutturata per elaborare gli stimoli che riceve dall’ambiente in modo organizzato e ordinato. Noi tendiamo a percepire tutto quello che ci circonda dandogli un senso.

Spesso valutiamo le persone esclusivamente per le somiglianze che hanno con noi e ne rifuggiamo le differenze. Questo si chiama "pensiero prevenuto" e ostacola profondamente l'emergere di una cultura dell'integrazione creando una cultura rigida, non accogliente, che non lascia spazio alla possibilità di integrare chi è "diverso".

E così lo straniero, il portatore di handicap, la donna, l'omosessuale o l'anziano diventano spesso oggetto di pregiudizi e di distanza interpersonale.

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    Nel conoscere l’Altro, l’istinto di conservazione ci fa percepire il nuovo in modo che sia il più possibile uguale a noi e le differenze invece come una minaccia. Chi è diverso costringe noi stessi a metterci in discussione e questo prevede impegno e fatica.


    Dinanzi al diverso la prima reazione che abbiamo, di solito, è la sospettosità, per passare poi a provare angoscia nel non comprendere l’Altro, e per giungere in alcuni casi a provare vero e proprio odio. Queste sono emozioni sicuramente inappropriate ma oltre ad essere condannate dovrebbero essere prima di tutto comprese.


    Innanzitutto, provare sospettosità è la conseguenza di trovarsi di fronte a qualcosa per noi nuovo e non immediatamente accessibile.


    L’angoscia ha le sue radici nell’essere destabilizzati dalla irrazionale convinzione che l’Altro, con la sua diversità, possa minacciare la nostra identità e la nostra cultura. L’odio invece è frutto della proiezione sull’Altro di ciò che di noi rifiutiamo.


    Il timore della diversità è il timore di noi stessi, se non siamo in pace con quello che di noi non accettiamo, allora il seme della discriminazione sarà sempre pronto a germogliare. Ciò che sfugge in realtà è che dominati da queste emozioni negative quando siamo di fronte ad una persona “diversa” dal nostro modo di vivere, perdiamo qualcosa di prezioso: il confronto.


    La crescita di una persona avviene grazie anche al confronto. Conoscere e ri-conoscere le differenze nell’Altro può diventare un’occasione di arricchimento. Ci vorrebbe un'interazione più che la tanto temuta integrazione, la quale porta troppo spesso colui che è estraneo alla nostra cultura a dover “perdere” la sua appartenenza culturale d'origine. Una interazione vorrebbe dire invece interagire senza che nessuno debba apportare cambiamenti al proprio stile di vita e a se stesso.


    Alla luce di questo diviene fondamentale sensibilizzare ed educare precocemente le nuove generazioni ad apprezzare la diversità, a valorizzarla, a considerarla come risorsa e non come limite senza per questo avere paura di perdere se stessi, superando così rigidità relazionali e pensiero prevenuto.

Anatroccoli o Cigni?


La favola del brutto anatroccolo è considerata per eccellenza la fiaba sulla diversità. È una fiaba molto conosciuta, tanto che l’espressione “brutto anatroccolo” è entrata nel linguaggio comune per indicare un individuo che si crede inadeguato o goffo, peggiore rispetto al gruppo di appartenenza.

Viene considerata una metafora delle difficoltà che spesso i bambini affrontano durante la loro crescita. Viene loro spesso narrata, poiché si ritiene utile da un punto di vista psicologico, al fine di potenziare l’autostima e far loro accettare eventuali differenze che li dividono dagli altri; o addirittura, essere fieri di tali differenze, che potrebbero in realtà rivelarsi un dono.

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    Scritta da Andersen presenta notevoli spunti autobiografici : lui il primo dei brutti anatroccoli, sublima attraverso la stesura di questa opera, l’ essersi sentito prima un bambino poi un ragazzo diverso ed emarginato, a causa delle prime manifestazioni e dalla nascente autoconsapevolezza della sua omosessualità.


    Il brutto anatroccolo nasce all’interno di una famiglia normale. Sin dall’inizio però la sua vita comincia con una demarcazione di inferiorità e di svantaggio : è l’uovo all’interno di una nidiata di anatroccoli che si rompe per ultimo. Con il dischiudersi del guscio si evince la sua natura : anziché essere come tutti gli altri bianco e quindi bello, lui nasce grigio, grande e goffo nei movimenti. Sin dalla nascita si sente inadeguato e lasciato in disparte. Desidera diventare come gli altri, essere come gli altri, essere normale, ma non può riuscirci completamente, perché è diverso.


    L’ambiente intorno a lui non funge da sostegno, al contrario lo pone in una situazione di svantaggio.


    Tutti lo deridono, facendolo sentire inadeguato. Anche il rapporto con la madre non è completamente positivo ed accogliente. Non si sente amato completamente.


    L’atteggiamento della genitrice è ambivalente, presenta degli aspetti positivi ma anche negativi: se, infatti, da una parte la madre non rifiuta il figlio, vedendo in lui del potenziale (che in effetti si realizzerà alla fine della storia), dall’altra non lo accetta completamente, vivendo nella speranza che possa cambiare.


    Allora la reazione che il brutto anatroccolo prova, così come quella di tanti figli reali nella stessa condizione, è quella di pensare, di immaginare di essere capitati nella famiglia sbagliata, fantasticando sull’appartenere ad altra famiglia che sarebbe stata senz’altro migliore, più buona, amorevole, tollerante e accogliente.


    Oppure si può arrivare alla conclusione, più o meno consapevolmente, che la propria sofferenza, il proprio dolore, sia causato da una famiglia poco empatica, amorevole ed accogliente. Di essere stati sfortunati ad avere proprio qui genitori.


    L’amore genitoriale non dovrebbe pretendere che i nostri cari siano a nostra immagine e somiglianza, né che i nostri figli corrispondano all’immagine ideale che ci siamo costruiti prima che nascessero. L’amore non impone a nessuno di adeguarsi a uno standard riconosciuto dalle leggi di una casta chiusa, non esige nulla per sé, ma si esplica nell’accettazione dell’altro, desiderando la sua felicità.


    Ogni bambino ha una percezione di sé strettamente collegata a come si sente considerato dai propri genitori. Se i genitori hanno scarse aspettative nei suoi confronti, il bambino crederà di non valere. L’autostima sarà minata, così come sarà compromessa la motivazione a riuscire e a realizzare i propri progetti. Aspettative elevate dei genitori possono favorire nei figli una autostima oltre la normalità che influenza negativamente la percezione della realtà. Con questo carico sulle spalle il raggiungimento del successo sarà facilmente solo idealizzato e non reale. In una simile condizione un individuo sarà più incline a fenomeni depressivi (quando si accorge che la realtà è spesso lontana dal desiderio e dall'illusione) e troverà difficoltoso l'inserimento nei contesti della società.


    Una circolarità di affetto dentro la famiglia è molto importante per la crescita dei bambini. I genitori devono essere disponibili e non anteporre le loro esigenze a quelle dei bambini. E’ importante essere affettuosi, accoglienti e saper giocare con i propri figli. I bambini che vivono questo calore consolidano il legame con la famiglia, sono più inclini a comportarsi bene, ascoltano i consigli, stimano i genitori e, di conseguenza, hanno una propria autostima. Il calore ricevuto tende sempre a replicarsi, questi bambini sono socievoli con gli altri, sensibili, empatici e da adulti saranno a loro volta genitori affettuosi.


    Ritornando alla favola il nostro anatroccolo passerà il primo periodo della sua vita nella sofferenza, subendo la derisione, lo scherno e la violenza da parte dei fratelli, dei cugini e degli altri animali. La sua diversità sarà ridicolizzata dal chiuso mondo circostante, che pretende l’omologazione e che non ammette confronti con il diverso.


    Stanco e disperato per questa sua situazione un giorno deciderà di lasciare la famiglia e di scappare via, lontano.


    Così in questo viaggio, che rappresenta il percorso della ricerca del proprio Sé e della costruzione della propria identità, un giorno finalmente il brutto anatroccolo, arriva in uno stagno dove degli splendidi cigni stavano nuotando. Incantato dalla loro bellezza si ferma a guardarli, i cigni lo accolgono e solo quando vede il suo riflesso nell’acqua si rende conto di essere anche lui un cigno bellissimo.


    Questo passaggio rappresenta l’accettazione consapevole del proprio essere, della propria identità, non omologabile: il brutto anatroccolo ora è pronto per la trasformazione e quindi, si accorge di essere egli stesso un cigno.


    A questo punto come per magia si rende conto che viene accettato dal gruppo, ed è considerato e ammirato parte integrante di esso solo per ciò che é.


    Soltanto dopo aver completato il processo d’individuazione l’individuo trova i suoi simili, diviene membro di un gruppo da cui essere completamente accettato e voluto.


    Solo dopo aver completato il percorso della presa di consapevolezza, accettazione ed amore per sé stessi, solo allora anche l’ambiente esterno ricambierà gli stessi sentimenti positivi.


    La favola narra simbolicamente il percorso che l’essere umano, che ciascun essere umano, deve compiere per integrare la propria storia, il proprio carattere, la propria singolarità. In un secondo momento indica come contattare e identificarsi con il Sé e realizzare il proprio progetto personale.


    Quello illustrato è certamente un percorso pieno di ostacoli, conflitti, scontri, ambivalenze, sfiducie e rinunce che a tratti ci portano verso il rischio di rinunciare a se stessi, per la strada più semplice dell’omologazione con gli altri. Ma è contemporaneamente anche l’unico viaggio per trovare il proprio Sé e questo cammino di ricerca e di accettazione del proprio sé è un fatto esclusivamente personale.

Il Sole e la Luna: due mondi che si incontrano


Sin dall’antichità il Sole e la Luna sono sempre stati rappresentati come due parti di un tutto o, come nelle favole dei bambini, sposati. Da sempre il Sole rappresenta il mondo maschile e la Luna quello femminile. Ognuno ha le sue caratteristiche e le sue diversità.

La nostra tendenza è quella di sessualizzare tutto. Quando siamo di fronte ad una nuova nascita chiediamo innanzitutto: <<è maschio o femmina?>>.

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    Dopo una rapida occhiata al nascituro ci diamo una risposta. Da quella risposta deduciamo molte altre cose. Saranno decisi i giochi e gli interessi di quella persona, i suoi atteggiamenti ed i suoi desideri; come si dovrà comportare con gli altri, chi e in che modo dovrà amare e che ruolo dovrà svolgere nella coppia.


    La dualità maschio-femmina forma l’opposizione di due estremi, e ciò che appartiene all’una non appartiene all’altra. Quello che ci rende esseri umani passa prima di tutto attraverso ciò che ci fa essere uomini e donne, ovvero il riconoscimento di se stessi come esseri sessuati. La relazione di coppia così diventa il mezzo con cui l’uomo e la donna imparano ad utilizzare la propria polarità, in modo da diventare lo strumento di conoscenza e il mezzo per contattare l’altro e riconquistare l’antica Unità perduta. Quest’ultimo è un concetto universale. Ricongiungersi in un Tutto per l’uomo e la donna, è un concetto rintracciabile in molte religioni. Nel Taoismo e nel Confucianesimo si può ritrovare la complementarietà del Maschile (Yang) e del Femminile (Yin).


    Il primo può essere considerato come lato soleggiato, pieno, attivo, , quindi maschile della collina (Yang) ed il secondo come il lato in ombra, vuoto, passivo, quindi femminile della collina (Yin). Ciò significa che al di là delle latitudini il Maschile ed il Femminile protendono verso la loro ricongiunzione in una Unione completa ed equilibrata. Quando le caratteristiche dell’uno e dell’altro non si incontrano o non sono più tra loro complementari questo genera conflitto. Superare ciò che esso genera prevede da parte della coppia, impegno, sacrificio e soprattutto capacità di uscire dal proprio egocentrismo come gesto di fiducia in se stessi e di amore verso l’Altro.

Autenticità e attacchi di panico


L'autenticità consiste nell'essere costantemente se stessi riuscendo a far riunire in noi tre aspetti su cui si basa la percezione della nostra identità:

  • Io sono ciò che voglio essere.
  • Io sono ciò che voglio apparire.
  • Io sono ciò che sono.

In letteratura sono stati molti gli esempi che hanno affrontato il tema dell’identità personale nel concetto di autenticità. Come “Lo strano caso del Dr. Jekyll e Mr. Hyde” di Stevenson, “Il sosia” di Dostoevskij, l’Amleto di Shakespeare (“Essere o non essere”?) e più in generale la completa opera di Pirandello.

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    Nella psicologia il tema dell’autenticità è stata affrontata soprattutto dalla psicoanalisi. Nel Caso clinico del “Presidente Schreber” Freud analizza una persona con una parte “lucida” della personalità (che gli permetteva di lavorare come Presidente della Corte d’Appello) e una parte “ricostruita”, che gli consentiva di vivere in un mondo delirante e non aderente alla realtà. Altri studiosi come la Deutsch teorizzano una “personalità come se” tipica di quelle persone che sono capaci di instaurare relazioni interpersonali prettamente superficiali, nascondendo sempre dentro di sé un profondo vuoto interiore. Queste sono persone che non sono in grado di costruirsi una vera identità personale, ma solo una precaria maschera sempre mutevole in funzione dell’approvazione altrui e delle aspettative esterne.


    Tra le varie forme di disagio una riflessione più approfondita vale la pena farla per le frequenza statistica con cui si presentano agli attacchi di panico. L’attacco di panico coincide con la perdita del controllo sul proprio corpo e sulla propria mente. Sintomi come: forte tachicardia, mancanza d’aria, disturbi corporei vari, si associano al terrore di morire improvvisamente. Da un punto di vista psicologico ciò è spesso legato ad un conflitto interno negato che la persona vive in un particolare momento della vita. Il momento del matrimonio, concepire un figlio, il cambio di scuola o di lavoro, i traslochi, le separazioni, il pensionamento, sempre rimandano ad emozioni ambivalenti da riconoscere ed elaborare. Nei casi in cui però il soggetto non voglia ammettere sentimenti negativi, il conflitto viene negato e la parte negativa trova come unica valvola di sfogo quella dell’attacco di panico.

Da Bruco a Farfalla


Nel conoscere l’Altro, il funzionamento del nostro cervello ci fa percepire il nuovo in modo che sia il più possibile uguale a noi, mostrandoci eventuali differenze come un pericolo. La paura della diversità è la paura di noi stessi, se non siamo in pace con quello che di noi non accettiamo, ci troveremo sempre nella condizione di escludere, rifiutare, criticare il diverso. Perdendo così anche la possibilità di crescere ed arricchirci emotivamente attraverso il confronto.

Ogni cammino umano è rivolto alla consapevolezza. Per poter ambire alla felicità, il “diverso” deve riconoscere se stesso, accettare la propria natura, ricercare persone disposte ad amarlo per quello che è, superando le difficoltà dell’ “inverno”.

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    Chi può riconoscersi nella definizione di diverso?


    Omosessuali, disabili, stranieri, ma anche figli che non vogliono seguire le orme dei genitori, giovani che non accettano l’ideologia o le mode dell’ambiente in cui vivono, gente che non vuole adeguarsi alle regole imposte dagli altri, sognatori che non scendono a compromessi.


    Diverso è anche chi ha una spiccata sensibilità ed è inserito in un ambiente aggressivo e superficiale, o una persona speciale in un gruppo di mediocri.


    Può sembrare paradossale ma anche un individuo che ha “qualcosa in più”, come il genio, una persona particolarmente intelligente può percepirsi come diverso e pertanto sviluppare un complesso d’inferiorità.


    Il “complesso del talento” consiste nella sofferenza profonda di sentirsi intellettualmente diversi per una superiorità cosciente o inavvertita.


    In alcuni casi, il soggetto è consapevole delle sue “doti, ma considera rischioso manifestarle”.


    In altri casi i giudizi negativi dell’ambiente hanno effetti più gravi e possono indurre un’intima e sofferta convinzione di non valere. Oppure la discriminazione del genio può riguardare i rapporti interpersonali. Il classico “primo della classe”, escluso dalla vita sociale ed affettiva del gruppo classe. Il riconoscimento intellettuale c’è, ma è pagato a caro prezzo, con l’isolamento dagli amici, e con il rischio di incidere negativamente anche nella vita amorosa.


    Nessun essere umano può vivere da solo, ma d’altra parte non si può vivere con tutti, non si può essere in sintonia con tutti.


    L’incontro con i propri simili rimane fondamentale per un sano equilibrio affettivo e psicologico. Il diverso deve poter affermare la propria individualità, ma nello stesso tempo sentirsi accettato nel gruppo di appartenenza.


    La scoperta dei propri simili spesso può portare a una volontaria ghettizzazione o alla creazione di un’ennesima casta chiusa. Per questo è auspicabile che, anche dopo aver trovato la propria “famiglia”, non si rinunci al confronto con chi è diverso da noi.


    Se dovessimo sintetizzare il percorso di crescita umana e spirituale che porta dal riconoscimento della propria diversità, alla costruzione della propria identità, all’amore verso se stessi e alla realizzazione del proprio progetto personale, i passi da percorrere potrebbero essere:

    • conoscere e superare le conflittualità interne, cioè ammettere alla propria coscienza il nostro modo unico ed originale di essere nel bene e nel male, anche se diverso da quello del proprio gruppo di appartenenza. Anche se non soddisfa le aspettative genitoriali, le esigenze altrui ed il nostro ideale di perfezione, che tra tutti è il tiranno più severo, castrante e opprimente;
    • superare la paura di essere diversi, perché in realtà si è unici, cioè accettare se stessi ed amarsi completamente, anche nella parti immature, sbagliate, non comuni, non desiderabili, malate;
    • superare le convenzioni ed i condizionamenti di essere come gli altri, di essere sbagliati perché non si assecondano le aspettative genitoriali o il severo ideale di perfezione;
    • identificarsi nell’Io , cioè ritrovare se stessi accettandosi ed amandosi completamente per quello che si è e non per quello che si dovrebbe essere, o che sarebbe più semplice essere;
    • contattare il proprio progetto personale di vita, che va individuato e realizzato;
    • ritrovare i propri simili cioè una famiglia spirituale, o gruppo a cui si può scegliere di appartenere, in cui quella diversità venga accettata, valorizzata, vissuta come un dono. A volte con la propria famiglia d’origine questo passaggio non è possibile compierlo. A volte oltre alla famiglia reale, occorre affiancare una famiglia “sostitutiva” che ci permetta di non sentirsi diversi, strani, inadeguati, non compresi, amati parzialmente, ma al contrario in perfetta sintonia con sé e con gli altri.

Avere un progetto e costruirsi… grazie alla psicoterapia


Il termine progetto è strettamente connesso con la possibilità di decidere e di scegliere per la nostra vita. Kierkegaard ponendo al centro del pensiero universale il singolo individuo, premette che una scelta è sempre preceduta da un’altra scelta. La successione di scelte porta alla decisione, cioè alla realizzazione del progetto.

Ogni persona quando inizia una terapia porta un disagio, un problema da risolvere, un conflitto da elaborare. A livello emotivo però porta anche una richiesta più importante: essere aiutato a riconoscere il proprio progetto di vita e successivamente essere aiutato a realizzarlo.

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    Il percorso terapeutico funziona per processi:

    1. ricostruire il Passato dal Presente per comprendere meglio il futuro;
    2. trasformare il passato per modificare il presente;
    3. creare una continuità tra passato e presente attraverso la progettualità.

    Pertanto l’obiettivo di una psicoterapia non dovrebbe essere quello di risolvere i problemi che un paziente porta in psicoterapia, ma aiutare il paziente a far in modo che la propria emotività raggiunga l’obiettivo di sviluppare : la capacità di amare se stesso, la capacità di amare gi altri e la capacità di essere amato.


    Il progetto non può essere confuso con il sogno: il sogno nasce dalla nostra fantasia ed è slegato dalla realtà, il progetto è frutto dell’impegno e della pazienza. Non solo ma esso è il derivato di una crescita individuale, di una scelta generata all’interno di un percorso personale. All’interno di noi alberga il nostro progetto personale: esso va prima identificato e poi realizzato. A volte la nostra emotività ci lancia dei messaggi per farci comprendere che non stiamo vivendo la vita seguendo i nostri veri desideri profondi. Quando il corpo non è in salute spesso esprime anche un malessere spirituale più profondo. Il conflitto irrisolto, il problema grazie a cui si inizia una psicoterapia, spesso nasconde l’esigenza di far emergere il nostro progetto personale; allora i conflitti coniugali, l’ansia, la depressione, gli attacchi di panico, l’insoddisfazione personale, sono il messaggio che la nostra inconsapevole emotività ci manda per far emergere la nostra parte più profonda e vera.


    Quando la psiche vive un disagio dobbiamo pensare che sta cercando di comunicarci una sofferenza dell’anima che non vogliamo affrontare.


    Per identificare il nostro progetto esistenziale dobbiamo prima distinguerlo dal falso progetto legato: alle aspettative altrui, del progetto genitoriale, su cui per tanti anni abbiamo costruito la nostra identità e le nostre relazioni interpersonali. Nell’abbandonarlo la paura che proviamo è quella di contattare il vuoto, di essere rifiutati e abbandonati dagli altri, di essere criticati. Ma anche quello di essere cattivi perché si deludono le aspettative altrui, perché non si esaudiscono i desideri delle persone significative. Non solo ma rendere concreto il nostro progetto di vita, dipende dalla capacità che abbiamo di identificare e gestire il nostro orgoglio narcisistico. E’ proprio l’orgoglio narcisistico che ci fa dire: “io sono sufficiente a me stesso/a, non ho bisogno degli altri; io non devo chiedere scusa a nessuno; io ho sempre ragione e ciò conta più che di essere felice”. Il nostro progetto di vita si palesa a noi solo grazie al superamento del nostro orgoglio narcisistico attraverso l’elaborazione del dolore.


    La realizzazione dei nostri progetti dipende da quanto noi decidiamo di investire, dall’impegno, dalla costanza che ci mettiamo giorno dopo giorno, ma anche da quanto ci concediamo, cioè da quanto sentiamo di meritarlo.

Invidia, Godimento e Gratitudine


La gratitudine è strettamente connessa a due emozioni negative antiche e potenti: l’invidia e la gelosia. Nel primo caso ciò che si desidera (possibile partner, lavoro, successo, beni materiali,…) si basa su un atteggiamento distruttivo e mortifero, perché se quello che vogliamo non si può avere, si ha il desiderio di distruggerlo. La gelosia invece si basa su un atteggiamento legato all’amore verso ciò che desideriamo, distruggendo tutto ciò che ne impedisce il possesso.

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    Ne deriva che quando l’invidia è molto presente impedisce il reale godimento di ciò che desideriamo e danneggia la capacità che in noi possiamo maturare di trarre piacere da ciò che abbiamo e da ciò che siamo. In altre parole sviluppare la capacità di provare gratitudine. Questa competenza ha la forza di mitigare la distruttività dell’invidia, la quale è particolarmente tenace dentro noi e per sua natura tende a fare percepire il male che essa causa, e l’angoscia che da essa ne deriva, aumentando così come un “circolo vizioso” i nostri impulsi distruttivi. Pertanto si può dire che più si prova invidia e maggiore è il nostro desiderio di distruggere.


    La gratitudine invece è strettamente connessa alla generosità. La ricchezza interiore che dentro possediamo è frutto di un percorso di amore per noi stessi, di ascolto della nostra saggezza interiore e della consapevolezza che donandoci all’altro non perdiamo “pezzi” del nostro essere e della nostra identità. Ciò permette di percepire quello che ci circonda come amichevole ed occasione di arricchimento ed anche se, come spesso accade, la generosità di darsi all’Altro non viene apprezzata abbastanza, non per questo diminuisce. Coloro che non hanno contattato questi sentimenti di forza interiore oscillano tra momenti di generosità e momenti di ricerca spasmodica di gratificazione e di riconoscimento derivanti dalla percezione di essere stati defraudati, impoveriti e derubati.

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